Interviste

Agostino Cardamone: Da pugile a operaio, la mia vita in un film

La boxe è roba da uomini, racconta storie di uomini che hanno fatto della loro vita una continua lotta per la vittoria. Perché, una volta saliti sul ring, il mondo reale non esiste più e tutto l’universo è racchiuso entro pochi metri quadrati, in cui solo una regola conta. Non importa quanti pugni prenderai, o quanto sangue perderai, né quante volte cadrai sotto i colpi feroci del tuo avversario. Quello che davvero conta è farti trovare in piedi quando l’arbitro decreterà la fine dell’incontro.

Agostino Cardamone c’è riuscito 33 volte in 36 combattimenti. Soltanto tre le sconfitte per il pugile di Montoro Inferiore che, nel suo palmares, annovera un titolo italiano nel 1992, un titolo europeo dei pesi medi nel 1993, e un titolo iridato WBU conseguito nel 1998. Successo, gloria, onore. Questo è ciò che appare dall’esterno ma, guardando più da vicino, sul volto di Cardamone si scorgono i segni della sofferenza. I suoi lineamenti sono marcati, duri, come dura è stata la vita di un ragazzo costretto a lavorare per sopravvivere e insieme ad allenarsi per far sopravvivere la sua grande passione: la boxe.

“Il pugilato è uno sport molto duro, richiede tantissimi sacrifici. Inoltre, a sud non ci sono strutture adatte e nessuno che ti aiuta. Da giovane facevo il carpentiere – racconta con la voce rotta dall’emozione – Tutti i giorni andavo sul cantiere e dopo il lavoro mi allenavo. Conciliare le due cose era difficile ma per fortuna terminavo alle 17 così di sera avevo il tempo per andare in palestra. Dopo aver lavorato una giornata intera, non sempre si aveva la voglia di tirare pugni. Occorreva una fortissima determinazione. Questo tipo di vita mi ha portato a fare delle rinunce, mi sono privato di tutti i divertimenti dei ragazzi della mia età. Anche volendo non avevo né la voglia né le energie per uscire con i miei amici”. Nonostante ciò, Cardamone ha avuto il tempo di innamorasi, proprio come facevano i suoi coetanei, e insieme ai successi sportivi sono arrivati anche tre splendidi bambini. “Mia moglie e i miei figli mi hanno aiutato molto. Quando l’entusiasmo è scemato, la mia famiglia mi ha restituito le motivazioni e gli stimoli per continuare perché hanno capito che per me combattere era importante”. Lo è stato fin dall’inizio.

Cardamone, infatti, esordisce nel professionismo nel 1992 e subito conquista il titolo italiano contro Silvio Branco, con cui si scontrerà, battendolo, altre due volte nel mondiale WBU. Oltre che campione sul ring, il pugile di Montoro è anche campione di sportività. A conclusione del secondo match con il boxeur di Civittavecchia, Cardamone anziché festeggiare soccorre il suo avversario promettendogli la rivincita. “Ho vinto il premio fair play per quel gesto – ricorda – E’ stato un incontro duro, mi trovavo in difficoltà e, per paura di perdere, ho caricato troppo i colpi. Branco è andato giù, privo di sensi. Mi sono preoccupato e sono andato a sincerarmi delle sue condizioni. Per me il pugilato è sì vincere, ma non danneggiare l’avversario”.

Tra le tre sconfitte di Cardamone, la più bruciante è quella riportata contro Julian Jackson nel’95, a mondiale praticamente conquistato. “Eh – sospira, segno di una ferita che non si è mai rimarginata – Era un match che si poteva vincere, quella sconfitta non ci voleva. Arrivare imbattuto ad una finale mondiale non è da tutti. Ho perso per mancanza di esperienza ma neanche i miei manager mi hanno tutelato. Nella prima ripresa ho dimostrato di valere il titolo iridato ma nei secondi trascorsi all’angolo qualcosa dentro di me è cambiato. Sono tornato sul ring senza mordente, Jackson si è caricato, ha cercato di vendicarsi per la ferita che gli avevo procurato precedentemente e ha sferrato un brutto colpo che mi ha messo ko. A volte ripenso a quell’episodio e credo che se avessi vinto quell’incontro la mia vita non sarebbe stata la stessa”. Quella maledetta sconfitta è rimasta indelebile nella mente del pugile montorese e ne ha segnato la carriera: “Tutti gli incontri sono stati difficili – prosegue – Anche i match di preparazione, che avrebbero dovuto essere di comodo, sono stati battaglie contro avversari tosti”.

Nel ‘99 cede il titolo iridato a Raymond Javal e abbandona il ring. Dei successi, delle vittorie, restano solo i bei ricordi, le medaglie e le foto in bacheca, cimeli di una vita appartenuta a qualcun altro. “A Montoro mi avevano promesso un lavoro che mi avrebbe permesso di condurre una vita più agiata ma si sono dimenticati di me e ora faccio il metalmeccanico – racconta tristemente Cardamone – Sono stato uno pugile ad alto livello ma negli sport minori non guadagnamo tanto come i calciatori – non manca un accenno di polemica – Fortunatamente mi hanno dato questa palestra a San Michele di Serino in cui posso allenarmi e preparare i ragazzi”. C’è amarezza nella voce del campione che, dopo anni di sacrificio, si trova a fare l’operaio e l’istruttore nell’accademia di pugilato che egli stesso gestisce. Con un sogno nel cassetto: “Il presidente del Coni, Giuseppe Saviano, mi aiuta a promuovere la boxe. Spero che un giorno un ragazzo allenato da me possa partecipare alle Olimpiadi”. Proprio i Giochi Olimpici di Pechino hanno portato alla ribalta il movimento pugilistico italiano, con ben tre medaglie conquistate dagli atleti azzurri. “La boxe è uno sport di sacrificio. In Campania c’è materiale umano ma purtroppo gli alteti non vengono sostenuti e si trovano a dover affrontare tutto da soli. Inoltre, mancano strutture adeguate. Ai ragazzi che intendono avvicinarsi al pugilato dico che questo sport non è violento come si crede. Lancio anche un appello alle istituzioni sportive perché facciano qualcosa per promuovere i cosiddetti sport minori, che tante soddisfazioni stanno portando all’Italia, anziché investire soltanto sul calcio, che ha dimostrato di essere una delusione anche alle Olimpiadi”. Progetti per il futuro? “Presto la mia storia potrebbe diventare un libro e un film”.

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