Sabino Novaco: un uomo, un professore

L’ultima immagine che ho di Sabino Novaco risale all’inizio di settembre. Ci siamo incrociati per caso da lontano e io, mettendo da parte il timore riverenziale dell’alunna verso il suo vecchio professore, l’ho salutato semplicemente agitando la mano in aria. Lui mi ha risposto con il solito sorriso ingiallito, lo stesso che ho visto per cinque anni al liceo scientifico di Atripalda.
Novaco non era forse il miglior professore di matematica che si potesse incontrare, ma senza dubbio era un uomo straordinario, pieno di buone qualità, che affrontava ogni giornata con un sorriso.
Delle sue lezioni non ricordo le lunghe spiegazioni o le interrogazioni alla lavagna, ma la sua simpatia e quella capacità di catturare l’attenzione con battute stupide, che era poi il suo segno distintivo. Ancora sorrido ricordando i suoi “Si Atene chiagne, Sparta nun rire”, “Pecché riri oltre pecché si scemo?”, “A jatta pe’ fà ‘e pressa fece i figli cecati”, “Come fanno quatto elefanti a trase n’dà 500? Due annanzi e due arreto”, “Manco Gesù Cristo faceva ‘na parabola ‘o juorno come facimmo nuje”. E potrei continuare all’infinito…
Oggi, mentre ad Atripalda si sta celebrando il suo funerale, voglio ricordarlo così: seduto sulla cattedra, con il suo maglione sempre uguale, la sigaretta in bocca e un sorriso canzonatorio sulle labbra. Lo stesso, ne sono certa, che lo accompagnerà in cielo.